Arriva il set, ti giri a destra poi a sinistra,
sei in precedenza: l’onda è tua,
inspirazione profonda, ritenzione,
remi velocemente, la senti, uno scatto e ..
Guardi il tutto dall’alto,
riesci a vedere tutta l’onda nella sua forma completa,
dall’inizio alla fine, dal picco alla spalla, fino alla riva
dove esaurisce la sua corsa, dopo centinaia,
forse migliaia,
di chilometri percorsi fino a te.
La gioia ti entra nel cuore e il tempo si ferma,
non esiste niente altro al mondo per te,
forse non esisti neanche te,
però l’energia sì, quella esiste e si fa sentire quando
alla fine della sua vita ti scarica addosso
tutta la sua potenza, accumuluta in mare aperto,
spingendoti sotto acqua, per qualche secondo.
Riemergi.
Ale Staffa
Delle mie uscite in mare ricordo tutto, le onde belle,
quelle perse, quelle che mi hanno frullato, la fatica
di indossare la muta, i crampi che non mi hanno fatto
smettere la prima volta che tornavo in acqua dopo
l'inverno. La schiuma che ti avviluppa peggio di una
tela di ragno, gli urli dei coatti della line up, e i
pivelli che non hanno capito ancora un cazzo delle
precedenze. Ma se cerco ancora più a fondo nella mia memoria, c'è
un momento che ha un sapore unico: quello della
scoperta, dell'attesa, dell'eccitazione. E' il momento
in cui arrivo al mare, parcheggio, e la prima cosa che
faccio è andare a vedere se le onde sono davvero come
me le aspetto, e se il rumore che mi ha cullato e
rassicurato tutta la notte non sia un sogno. Quei
pochi metri, dalla strada alla spiaggia, quei vialetti
bianchi bordati di erba, hanno una forza evocativa
straordinaria. Sono il coronamento di giorni di
attesa, sperando nella mareggiata, nella scaduta di
scirocco, sono la giusta ricompensa di certe
alzataccie rimaste senza seguito, sono più belli di un
tappeto rosso tra due ali di folla e te in mezzo.
Quel giorno, ore sei e 15 di mattina, fine agosto,
temperatura buona, aria tersa, il vialetto non mi
aveva deluso. Dio aveva disegnato le onde personalmente: arrivavano
in gruppi di sei, regolari, lunghe eppure ripide,
rompendo con un rumore secco, deciso, sulla secca
sotto riva. In acqua c'erano già tre shortisti. Come
al solito sarei stato l'unico bodyboarder, almeno fino
alle dieci, dieci e mezza, l'ora dei pischelli e dei
ritardatari. La mia Tamega, battezzata nell'acqua di
tre oceani e usata da lui in persona, fremeva, o forse
ero io che non riuscivo a tenere ferma l'adrenalina
che suonava la carica. Mi butto subito in acqua direttamente dalla riva, il
contatto con l'elemento che non ha forma rimette
subito in forma il mio cervello. Schiuma e alghe
disturbano i bagnanti, per me sono il vino e il pane
della comunione con il mare. Sulla line up i surfer
sono i soliti local con le antenne che captano giusto.
Basta uno sguardo incrociato per capire che nessuno
fregherà l'altro. La festa cominci.
Il set che arriva vuole essere scenografico fino al
virtuosismo: un grosso pesce passa rapido nel cavo
della prima onda che avanza, perfettamente visibile in
quel capolavoro di vetro liquido. Lo applaudo
mentalmente per il perfetto tubo che si appresta a
eseguire. Faccio passare un paio di onde, anche per rispetto a
chi in acqua era prima di me. Seguo le loro partenze,
di uno di loro vedo solo la testa, sospesa in cima
alla cresta che non ha ancora rotto. Da dietro 'l'onda
sembra qualcuno che cammina tranquillo oltre un muro.
Buffo. Memorabile. Ora tocca a me. Mi guardo dietro e vedo un'onda che
promette bene. Una destra che prenderà ancora più
forza dalla risacca di quelle già passate. Vai, batti
i piedi senza fare schiuma e prendila: la prima onda è
la prima onda, e gli altri non approverebbero un
errore neanche minimo nel tuo biglietto da visita.
Tutto funziona alla perfezione, l'angolo della Tamega
taglia l'onda come una lama, tiro su il naso della
tavola e la cresta si frantuma sotto di me, ricado
nella calda pancia dell'onda quattro metri più in la,
e ora la mia onda è una sinistra, tiro su le gambe,
avanzo e riprendo la direzione giusta. Viaggio a metà
parete, con l'onda che si chide dietro di me. Scelgo
un 360 per uscire prima di schiumare, ma la perfezione
non mi appartiene, rischio un'ingavonata e una
figuraccia ma mi salvo di culo, letteralmente,
spostando il peso tutto indietro.
Ora posso finalmente guardare la riva e scoprire che
tutto questo è durato lo spazio di 20, 30 metri al
massimo. Torno sulla line up con la serenità di chi ha svolto
bene il suo compito. L'eterna lotta, tutta italiana,
tra surfisti in piedi e surfisti sdraiati, fa male
solo al mondo del surf. Ma questa è un'altra storia e
ci sarà occasione per raccontarla.
Le onde invece di perdere intensità si fanno sempre
più potenti, in acqua però siamo ancora in pochi, e il
festival continua. Si presenta un set davvero micidiale. La prima è
davvero grossa. Tre shorter partono remando come
pazzi. Ma io e un altro paio di local rimaniamo fermi
a guardare verso l'orizzonte. La sorella che viene per
seconda non riesce a nascondere la terza onda della
serie, che fa davvero paura. Mi posiziono per prendere
la destra e sperare nelle coincidenze, la possibilità
cioè a fine corsa di saltare su un'altra onda.
E così è. L'onda ha una sezione tubante nella quale mi
trovo quasi all'improvviso tanta è la sua potenza. La
tavola sta planando e il suo rumore è qualcosa di
meraviglioso: è un sibilo liquido. Dopo una lunga
corsa e in mezzo agli schizzi vedo alla mia destra,
davanti a me, una nuova onda. Viro e rientro
immediatamente poprio in tempo per lasciarmi la
schiuma amme spalle e cominciare una nuova corsa, su
quest'onda che ha perso in ripidità, non in volume.
All'ora di pranzo il vento ha smontato la regolarità
delle onde, i cavalieri del mare abbandonano la loro
postazione uno a uno. Ci saranno altre onde, più
belle, più grandi, ma di sicuro non ci saranno mai più
altre onde come quelle.
di Alessandro Brunetti