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Storie di surf e surfisti



UNA FELICE MELANCONIA

di Daniele Paolucci


Sono tornato a casa e, considerando il fatto che i miei emisferi cerebrali destro e sinistro sono ancora in pieno conflitto, non so se dire ?finalmente? o ?purtroppo?. Potrei dire finalmente perché, dopo tanta fatica fisica, ora posso riposare; ma potrei dire ugualmente purtroppo perché so che da ora fino a non so quando, dovrò essere digiuno di quelle sensazioni ed emozioni vissute in questi ultimi giorni. Questa ?felice melanconia? è ormai una compagna fedele dei giorni che susseguono ogni ritorno dai miei viaggi. Quest’ultimo iniziò inaspettatamente la mattina di venerdì ventitré luglio. Erano circa due settimane che non andavo a Santa Marinella: perché io volessi, ma solo perché non ce n’era alcun motivo. Ma quella mattina c’era e come! Già dalla sera prima sospettavo che l’indomani poteva essere il giorno giusto per andare a Santa Marinella.

La conferma l’ebbi proprio il mattino seguente quando telefonai ad Andrea, che abita lì. "Pronto, Andrea? Ciao, sono Daniele, come va? Lo sai perché ti ho telefonato, vero? Per favore comunicami buone notizie, perché non ce la faccio più, ho una voglia tremenda...". Aspettavo con ansia la sua risposta, anche se il fatto che alle sette e mezza della mattina fosse sveglio era già un buon segno. Al che Andrea mi rispose: "Sapevo che mi avresti telefonato, a volte penso che il tuo sesto senso sia particolarmente sviluppato, anche perché ancora un altro minuto e sarei uscito da casa. In ogni modo, amico mio, rallegrati e sbrigati a venire, perché "sono arrivate" e ho il sospetto che sono proprio come piacciono a noi".

Dopo quelle parole, la mia ansia si tramutò in adrenalina. In quei momenti il tempo però sembra scorrere troppo velocemente, e il solo pensiero che tra me e S. Marinella, oltre che ad esserci ottanta chilometri di strada da percorrere, c’era anche il traffico del Raccordo Anulare da tollerare, come in un gioco alchemico l’adrenalina si ritrasformò in ansia. Infatti, il pensiero principale che corre durante il tragitto è quello di arrivare troppo tardi e quindi di non "trovarle più".

A volte però quel pensiero si dissolve facilmente guardando il cielo ed i suoi segni: le nuvole, la direzione del vento. Il più delle volte cerco anche di distrarmi ascoltando il genere di musica che più si accosta al mio stato d’animo di quei momenti. In ogni caso, tutte le volte, finché non arrivo sul posto, la mia sensazione è caratterizzata più dall’ansia che dall’adrenalina. Così quel giorno feci colazione in fretta, presi tutta la roba che mi serviva, montai in macchina e presto raggiunsi il G.R.A. direzione Civitavecchia. Fortunatamente non incontrai molto traffico; fattore quello che fece in modo che la mia ansia pian piano cedesse il posto alla famelica adrenalina, sostenuta sia dai segni del cielo che erano molto positivi, sia dall’alto volume della musica dell’ultimo album dei Red Hot Chili Peppers.

All’uscita dell’autostrada inizia a vedersi il mare e, insieme all’eccitazione - perché questo indica che ormai il "posto" è vicino -, sovente la mia mente viene funestata da una sequenza d’immagini riferite alle volte precedenti, quando ho passato giornate indimenticabili: poiché ?loro? erano bellissime. Da li nasce e prende piede la speranza. La speranza non solo di "ritrovarle" belle come la volta precedente, ma anche di passarci insieme un’altra intera giornata. Una volta usciti dall’autostrada Roma-Civitavecchia, si prende la Via Aurelia.

Dopo circa mezzo chilometro, c’è una stradina privata sulla sinistra che porta direttamente sulla spiaggia, da tutti noi chiamata "Banzai": quello è il posto. Una volta entrato nella stradina, il mio cuore andò al galoppo, il motore della macchina sù di giri, e le mie dita dovutamente s’incrociarono. La stradina finisce sulla spiaggia, di cui una parte è divenuta un parcheggio. Arrivato al parcheggio, il cuore galoppante, l’ansia e la musica cessarono di colpo. In quell’istante fermo e ovattato, realizzai immediatamente l’immagine della situazione, che penetrava attraverso le pupille dei miei occhi, andando infine a stimolare quella parte del cervello che ordina di produrre contemporaneamente dopamina, serotonina e adrenalina. C’era il sole, un leggero vento fresco da terra, i miei amici, il mare e "loro". Si, dopo quindici giorni erano ritornate, anche più belle e perfette di allora, bellissime come di rado, "loro": le ONDE.

Davanti ai miei occhi frangevano onde perfette "destre" e "sinistre", alte circa due metri. La schiuma bianchissima che producevano rifletteva la luce del sole, tanto che con il suo splendore ed il suo bagliore creava un vivo contrasto con il colore blu dell’acqua. In un batter d’occhio mi spogliai dei vestiti, indossai il costume, presi la mia tavola da surf, chiusi la macchina e finalmente, spinto dalla gioia e da un Amore universale, di corsa mi diressi verso il mare. Arrestai la mia frenetica corsa solo quando raggiunsi il bagnasciuga, perché è lì che avviene la preparazione al passaggio ad un altro stato d’essere. Il bagnasciuga rappresenta per me la soglia di due mondi fisicamente vicini, ma ideologicamente molto lontani. Per il surfista, il bagnasciuga è quel posto dove egli, ponendosi di fronte al mare, porge le spalle al mondo abituale, alla società, ai vestiti, ai pensieri. Accantona ogni cosa dietro di sé, e ritrovandosi nudo davanti al mare, percepisce ogni atomo, ogni molecola, di quella natura che non pretende niente, se non il rispetto. Lì non ci sono divieti di sosta, semafori, palazzi, insegne luminose annerite dallo smog, tutto al più lì c’è l’insegna di Dio illuminata dai raggi di un sole che esiste da prima del mare stesso.

Furono questi gli ultimi pensieri che feci fino all’attimo prima di immergermi in acqua. Solo la tavola rappresenta l’ultimo legame con "l’altro mondo", e su di lei mi sdraiai per raggiungere la "line up", ossia quella precisa zona del mare dove le onde iniziano a formarsi per poi frangere fino a riva. Più mi avvicinavo e più saliva l’adrenalina, e più la mia pagaiata diventava veloce, e più le onde si facevano grandi e rumorose. Presto raggiunsi la "line up": l’ambiente era pervaso da un’energia serena. Ogni viso era segnato da un sorriso e da occhi lucenti e vitali, e tutti si stavano godendo quelle onde fantastiche. Salutai molti amici. Il tono e la qualità del loro saluto mi diedero la carica giusta per surfare la prima onda. Presi la terza di un "set", sui due metri. Scelsi quella perché era la migliore, e perché nessuno aveva deciso di prenderla.

Si avvicinava velocemente, e più era vicina e più diventava alta. Non appena decisi di mettermi in posizione per "prenderla", dopo pochi istanti la sentii già sotto di me. Bastarono solo due bracciate perché la mia tavola iniziasse a planare, e solo mezzo secondo a far scattare il mio corpo all’impiedi sulla tavola. "Bottom turn", "cut back", "off the lip": ovvero una dolce e frenetica danza, dove né il surfista, né l’onda, decide il movimento da fare. Chi lo decide è quel quid, quella forza vitale, quella legge della natura, che permea ogni espressione del creato, e fa sì che ogni volta che due elementi si trovano in armonia tra loro fluiscano insieme secondo un preciso disegno. Terminai la surfata di quell’onda, bagnato di libertà e soddisfazione.

E così fu per tutta la giornata. Dopo sei ore di surf, intervallato da un ora per uno spuntino, esausto, decisi di tornare a casa. Ma, mentre mi rivestivo, squillò il mio cellulare: "ciao fratè! Qua c’è il maremoto, e domani entrerà un’altra perturbazione atlantica, tu sai cosa significa vero?". Era Riccardino, il mio più caro amico, che da alcuni giorni si trovava in Sardegna. " Si che lo so. Significa surf, surf e surf!?. " Beh, allora se lo sai, sai anche che, come dici sempre tu, siccome " in giovinezza si vive e in vecchiaia si campa", imbarcati subito e vieni qua!?. Perché è il mio più caro amico? Perché oltre a vivere e ad interpretare il surf alla mia stessa maniera, Riccardino è il solo che conosca l’unico modo che esiste per convincermi a fare determinate cose: citare quella frase.

E fu così che di sana pianta, quella stessa sera, mi recai al porto di Civitavecchia. Parcheggiai la macchina, feci un biglietto di passaggio ponte (il più economico che c’è), e con gli unici vestiti che avevo e la mia affezionata tavola, salii sulla nave e mi mischiai in mezzo a migliaia di persone che andavano in Sardegna per non so quale motivo. Riuscii a dormire sul pavimento di una sala poltrone, nonostante la mia stanchezza dovette combattere per tutta la notte contro la solita ansia-adrenalina. Sbarcai il mattino dopo verso le sei. Presi subito l’autobus per Sassari, che dopo tre ore mi avrebbe portato all’appuntamento con Riccardino, accompagnato da Roberto, un altro mio amico. Arrivato a Sassari, i miei amici mi caricarono in macchina e mi dissero: "sei pronto per il Paradiso? Stiamo andando a ??!". Altre tre ore di strada. Facemmo sette giorni di gran surf; con gli stessi vestiti, dormendo in macchina e non lavandoci per una settimana. Questo è il Surf: oltre che uno sport, uno stile di vita. Solo il surf ti fa uscire di casa sapendo a che ora esci ma non quando tornerai.

Sono tornato a casa. Domani inizierò una nuova giornata senza il buongiorno di nessuna di "loro", ma avrò ancora l’energia di una settimana della loro rumorosa potenza.


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